STORIA DEL RUM CUBANO 4. LEGALIZZAZIONE

La Guerra dei Sette Anni (1756-1763) è ormai quasi dimenticata, ma è un evento di fondamentale importanza ed ha plasmato gran parte del nostro mondo moderno. Iniziò nel 1754, come un conflitto coloniale tra Gran Bretagna e Francia, quando gli inglesi cercarono di espandersi nel territorio rivendicato dai francesi in Nord America. Poi coinvolse le principali potenze europee, molte nazioni indiane e anche varie potenze asiatiche.

La Spagna si unì alla guerra nel 1762 schierandosi con la Francia. La decisione fu presa dopo molte esitazioni, ma sembra dale fonti, con la piena consapevolezza di ciò che era in gioco. Infatti, nel preambolo del Trattato di alleanza con la Francia è scritto: “Tutta l’Europa deve essere consapevole dei rischi a cui è esposto l’equilibrio marittimo, considerando i progetti ambiziosi della Corte Britannica e il dispotismo che cerca di imporre su tutti i mari. La nazione inglese ha dimostrato, e dimostra chiaramente nei suoi procedimenti, soprattutto negli ultimi dieci anni, che vuole farsi padrona assoluta della navigazione, e intende lasciare a tutti gli altri solo un commercio passivo e dipendente.”

La guerra coinvolse tutti i continenti, fu forse la prima vera guerra mondiale, e finì con la vittoria finale della Gran Bretagna, dovuta principalmente alla sua superiorità navale. La Potenza raggiunta dalla Marina britannica le permise nel 1762 di vincere il premio più grande di tutti, sognato da pirati e corsari inglesi fin dai tempi di Francis Drake: catturare L’Avana, impadronirsi della Chiave delle Indie.

Il 7 giugno 1762 60 navi da guerra, 150 navi da carico e 27.000 tra soldati e marinai attaccarono L’Avana. Due mesi dopo, il 12 agosto, la città si arrese con una serie di condizioni. In Gran Bretagna e in Nord America l’entusiasmo fu enorme, ma la città fu restituita alla Spagna poco più di un anno dopo. Infatti, nel 1763 con il Trattato di Pace, la Gran Bretagna ottenne il riconoscimento della sua conquista dell’Impero francese in Nord America, ma restituì a Francia e Spagna la Louisiana, la Florida, le Isole dello Zucchero francesi e L’Avana: gli Sugar Barons britannici dei Caribi non volevano concorrenti pericolosi all’interno dell’Impero.

L’occupazione britannica della città, anche se durò solo 10 mesi, lasciò un segno indelebile. Il monopolio spagnolo fu sospeso e il traffico portuale conobbe una crescita vertiginosa. Londra non diede a L’Avana completa libertà di commercio, ma la libertà di commerciare all’interno del suo impero, che era molto più ricco di quello spagnolo. Forse questa esplosione del commercio fu dovuta, almeno in parte, al semplice venire alla luce del contrabbando, ma in ogni modo la scossa fu forte e con conseguenze di vasta portata.

Questo breve periodo di boom economico e di quasi libertà commerciale ha generato, con il passare degli anni, una sorta di nostalgia fra le élite liberali ed indipendentiste cubane. Più tardi, ha fortemente influenzato l’opinione degli storici  fino al punto che molti considerano il 1762 come l’inizio reale dello sviluppo economico cubano, anzi a volte sembra che solo da questo anno la storia di Cuba meriti di essere studiata. Ad esempio, secondo Francisco de Arango y Parreño, il maître à penser dei piantatori de L’Avana nella generazione successiva: “È stato un periodo di vera risurrezione per L’Avana … Con i loro negri e il loro libero scambio, gli inglesi hanno fatto più di quanto abbiamo fatto noi nei 60 anni precedenti”. In realtà, nel 1762 Cuba era già una società complessa e relativamente sviluppata e i semi del progresso che in pochi decenni la avrebbe trasformata nel primo produttore di zucchero al mondo erano già stati seminati.

In ogni caso, uno degli effetti più duraturi della breve occupazione Britannica fu l’allargamento delle divisioni tra Peninsulares (cioè, spagnoli nati in Spagna) e Criollos (cioè, persone di origine europea, ma nate a Cuba). Tra le condizioni stabilite per la resa, gli inglesi avevano accettato di rispettare i costumi, la religione e la proprietà privata degli abitanti e più o meno rispettarono  I patti per quanto riguarda la proprietà degli abitanti della città, cioè, fondamentalmente, i ricchi Criollos. Invece, sequestrarono i beni della Corona e dei proprietari terrieri Peninsulares che avevano interessi economici a L’Avana, ma vivevano in Spagna. Questi ultimi erano numerosi e spesso erano partner commerciali dei mercanti locali, dai quali si sentirono traditi. Insomma, la borghesia creola difese bene i propri interessi, frequentando liberamente ed in molti casi anche collaborando con gli occupanti, mentre si preoccupò ben poco degli interessi dei peninsulares e della Corona. Tanto che un funzionario spagnolo scrisse dopo la fine dell’occupazione: “Una bandiera o l’altra era secondaria, perché il cubano si sentiva convinto di avere già la sua patria.”

Nel 1763 Cuba aveva circa 165.000 abitanti, di cui un terzo a L’Avana e molti altri concentrati nelle altre città. Era quIndi una società prevalentemente urbana, una caratteristica che, mi sembra, ha mantenuto fino ad oggi. Nonostante l’immigrazione e le nascite, il numero di abitanti restava basso a causa dell’alto alto tasso di mortalità. I due flagelli principali erano il vaiolo e la febbre gialla, conosciuta anche come vomito nero. Il primo era di origine europea, il secondo africana. I criollos erano relativamente immunizzati, ma i peninsulares (soldati, marinai, funzionari ecc.) morivano a migliaia. Le esportazioni erano principalmente pelli, tabacco e zucchero e, come sappiamo, un po’ di rum di contrabbando.

Alejandro O’ Reilly, nato a Dublino intorno al 1725, era un ufficiale al servizio del re di Spagna Carlo III. Inviato a L’Avana, fu incaricato di visitare l’intera isola per riorganizzare e rafforzare la milizia locale. Ma il Governatore gli ordinò anche di riferirgli sulla situazione generale dell’isola, i problemi e le possibili soluzioni. Era una persona colta, immersa nelle idee dell’illuminismo allora egemone nella cultura europea. Una meravigliosa cultura generale, lontana dall’iperspecializzazione che, a mio modesto parere, è una delle debolezze del nostro presente. O’ Reilly scrisse un breve rapporto sulla sua visita, in cui, in modo perspicace e conciso, descrive la situazione dell’isola, le sue principali difficoltà e le possibili soluzioni. Il problema fondamentale dell’economia cubana, scrive, è il monopolio commerciale di Cadice e la conseguente, massiccia diffusione del contrabbando, indiscutibilmente impossibile da contrastare. Gli abitanti non possono ricevere dalla Spagna i beni di cui hanno bisogno, prima di tutto i vestiti, e allo stesso tempo non possono esportare i frutti della loro terra e del loro lavoro. La situazione è particolarmente grave lontano da L’Avana: “In un periodo di dieci anni, solo ciò che era sufficiente per il consumo di sei mesi ha raggiunto Santiago, Bayamo, Porto del Principe (attuale Camagüey) e gli altri villaggi dell’interno.” Pertanto, regnano il contrabbando, l’illegalità e la criminalità, causando gravi danni sia ai privati cittadini che allo Stato. La soluzione offerta da O’ Reilly è chiara: aprire Cuba al libero scambio con tutti i porti dell’impero spagnolo e, in parte, anche con i porti stranieri. “I vantaggi per il Re, per il commercio spagnolo e lo sviluppo dell’isola derivanti dalla liberalizzazione del commercio sono innumerevoli. Sono stati vissuti in prima persona durante la dominazione inglese a L’Avana. I dazi doganali aumentarono enormemente e, in un solo anno, circa 1.000 navi, che trasportavano ogni sorta di merci, entrarono nel porto.”

Dal 1763 in poi, l’apertura di Cuba al mondo è un fatto irreversibile, seppur lento e graduale. Il 26 marzo 1764, un decreto reale concesse la tanto agognata liberalizzazione dell’ aguardiente de caña, in cambio del pagamento di un dazio sulla produzione e di un altro sugli alambicchi. Il dazio consisteva di 2 pesos per ogni barile di rum prodotto, oppure di una somma che i piantatori dovevano concordare con i funzionari del Tesoro Reale, firmando una relazione giurata. L’anno successivo fu sostituito da un dazio del 2% al barile.

Ma com’era questo rum? Ovviamente non lo sapremo mai veramente, ma possiamo fare qualche congettura. Per quanto ne so sul modo di produrlo, e non solo a Cuba, credo proprio che oggi nessun bevitore lo apprezzerebbe oggi. Eppure, considerando il suo uso estensivo come medicinale, non poteva più essere quel “liquore ardente, infernale e terribile” descritto da un visitatore a Barbados nel secolo precedente.

Comunque, la legalizzazione del 1764 è un privilegio speciale concesso a Cuba, mentre in Nuova Spagna (all’incirca l’attuale Messico) rimane il divieto. Per questo nel 1788 un alto funzionario dell’Erario, Silvestre Diaz de la Vega, scrive un “Discurso sobre la decadencia de la Agricoltura en el Reyno de Nueva España” (Saggio sul declino dell’agricoltura nel Regno della Nuova Spagna) in cui sostiene la necessità di legalizzare la produzione di rum anche in Nuova Spagna con tutta una serie di concrete e ragionevoli motivazioni sui danni del proibizionismo vigente. Ma fa anche di più: chiede di definire per legge come deve essere fabbricato il rum, dando vita ad un precoce embrione di regole di qualità: “L’ Aguardiente de Caña deve essere prodotto con buona melassa e acqua di buona qualità, senza mescolarla con altre cose, nemmeno con il miele; dovrà essere fatto con la massima pulizia, e la prova di qualità dovrà essere tra quelle conosciute come la Prova dell’ Olio, quella di Olanda e quella delle Bolle.”

Credo che la Prova dell’Olio e quella delle Bolle siano più o meno le stesse che ho incontrato studiando il rum nelle contemporanee colonie britanniche del Nord America. La prima consiste nell’aggiunta di una piccola quantità di olio di oliva al rum: se l’olio rimane in superficie significa che il rum ha una percentuale di alcol troppo bassa, qundi non è buono; se invece l’olio affonda vuol dire che c’è abbastanza alcol e quindi va bene. La seconda nello scuotere un piccolo tubo di vetro in cui è contenuto un po’ di rum ed esaminare la scomparsa delle bolle che si sono formate. Se sono piccole e scompaiono lentamente, il rum è troppo poco alcolico, non supera la prova. Se invece sono grandi e scompaiono rapidamente, vuol dire che c’è abbastanza alcol ed il rum va bene. Sulla Prova di Olanda non so niente.

 

Permettetemi infine di fare una breve digressione che non riguarda il rum, ma la Grande Storia. La vittoria della Gran Bretagna sulla Francia nella Guerra dei Sette Anni fu soprattutto il risultato delle vittorie della Marina britannica sulla Marina francese.  Più tardi, contro Napoleone, la supremazia navale conservò l’esistenza stessa della Gran Bretagna impedendo la sua invasione da parte dell’imbattibile Esercito francese. Mi chiedo quindi quali siano le ragioni di questa lunga supremazia britannica nella guerra navale. Le navi francesi non erano tecnicamente inferiori a quelle britanniche, e i marinai francesi, mercanti, corsari e pirati non erano secondi a nessuno. Perché allora la Marina francese ha subito così tante sconfitte? Forse la risposta sta in un rapporto diverso tra la Marina e la società. In Francia i ranghi più alti sia dell’Esercito che della flotta erano riservati alla nobiltà, una casta guerriera, ma poco incline al mare, che ha prodotto grandi comandanti dell’Esercito, ma non della Marina. In Gran Bretagna, invece, la Marina era più meritocratica, e dava opportunità di carriera a giovani di talento provenienti da (relativamente) basso background sociale. Così i suoi capitani e ammiragli tendevano ad essere di gran lunga più capaci. Non ho studiato la questione, ma ho trovato almeno una fonte interessante: Jane Austen. “Persuasion” fu pubblicata nel 1818. Nel romanzo, Sir Walter è un nobile, presuntuoso, vanitoso, gonfio di orgoglio per della sua classe sociale, ma ozioso, impoverito e pieno di debiti. E non ama la Marina perchè, dice, è un “mezzo per portare le persone di nascita oscura in indebita distinzione, e innalzare alcuni uomini a onori che i loro padri e nonni non hanno mai sognato”

 

 

STORIA DEL RUM CUBANO 3. LA CHIAVE DELLE INDIE

In questo terzo articolo, dedicherò ampio spazio alla Grande Storia, e non solo al rum. Mi scuso con i lettori, ma vi assicuro che, come spesso accade, le sorti del nostro distillato preferito sono strettamente intrecciate con la Storia in generale; senza sapere qualcosa su quest’ultima, è impossibile capire cosa succede al rum.

Spesso, nella nostra vita quotidiana e anche nelle nostre riflessioni, tendiamo a dare per scontato il nostro presente, come se il mondo intorno a noi fosse il risultato di un naturale, inevitabile processo storico. Per esempio, e qui veniamo al nostro argomento, il fatto che le Americhe, l’Australia ed altre parti remote del mondo oggi parlano lingue nate nell’Europa Occidentale del Medioevo ci sembra normale, mentre è invece il frutto di un complesso processo storico.

Il nostro mondo moderno è stato plasmato in larga misura dalla corsa alla conquista degli oceani, che l’Europa occidentale ha iniziato nel 1400 (con qualche tentativo anche prima). Una corsa che ha dato origine alla prima, vera globalizzazione e poi ha fatto di alcuni piccoli paesi europei le potenze dominanti del pianeta. Inoltre, per lo più tendiamo a dimenticare che in quella gara l’Inghilterra è partita per ultima. L’Inghilterra (e la Gran Bretagna, dopo l’Atto di Unione del 1707) è riuscita to rule the waves (cioè a governare le onde, come canta il famoso inno) solo dopo il Portogallo, la Spagna, i Paesi Bassi ed anche la Francia. Solo alla fine del 1500, circa un secolo dopo l’arrivo dei portoghesi in India e degli spagnoli in America, gli inglesi iniziarono a intervenire in America. In primo luogo, pirati e corsari inglesi come Francis Drake attaccarono e saccheggiarono i tesori dell’America spagnola, ma senza cercare di stabilirvisi. Poi, nel 1620, gruppi di coloni inglesi si stabilirono in alcune piccole e marginali isole dei Caraibi, come Barbados e Saint Kitts. Più tardi, Oliver Cromwell concepì il suo ambizioso “Western Design” e nel 1654 inviò una flotta a conquistare Hispaniola (oggi Santo Domingo e Haiti). L’invasione di Hispaniola fu mal preparata e peggio effettuata e dopo una schiacciante sconfitta, le truppe inglesi si ritirarono in disordine e dovettero reimbarcarsi rapidamente, accontentandosi di occupare la Giamaica, povera isola spagnola, scarsamente popolata e praticamente indifesa. Nella seconda metà del 1600, le incursioni di corsari e pirati inglesi nei Caraibi continuarono, basti ricordare il nome di Henry Morgan, ma senza nuove, importanti conquiste territoriali. Nei primi decenni del 1700, le principali attività della Gran Bretagna nei Caraibi furono la vendita legale di schiavi all’America Spagnola e il contrabbando che era diffuso in tutto l’Atlantico e particolarmente nell’America Spagnola, come abbiamo visto nel primo articolo.

Nei primi decenni del 1700, la Spagna reagisce efficacemente armando un numero considerevole delle cosiddette guardacostas. Si tratta di navi veloci, equipaggiate con il contributo di armatori e corsari che, salpando principalmente da La Havana e Santiago, attaccano e sequestrano le navi contrabbandiere, condividendo poi il bottino con le autorità. Presto la linea tra il sequestro legale di navi contrabbandiere straniere e il semplice saccheggio di navi che commerciavano legalmente fu attraversata, come era pratica comune all’epoca, e le guardacostas divennero un vero flagello per la navigazione britannica nei Caraibi.

Nell’aprile del 1731 il brigantino britannico Rebecca stava navigando, probabilmente non lontano da La Avana, quando una guardacostas lo abbordò, alla ricerca di merci di contrabbando. Ciò che è realmente accadde a bordo non è chiaro ed al momento sembrò un evento insignificante. Ma sette anni dopo, nel 1738, il capitano del Rebecca, Robert Jenkins, mostrò ad un comitato della Camera dei Comuni il suo orecchio sinistro, tagliato dagli spagnoli che – disse – saccheggiarono anche la nave e insultarono il re britannico. L’opinione pubblica era già arrabbiata con la Spagna per altri “oltraggi” subiti dalle navi britanniche e la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Spagna nell’ottobre 1739, in seguito chiamata “Guerra dell’orecchio di Jenkins”.

Ovviamente, l’orecchio di Jenkins era solo un pretesto. Come molte altre guerre del 1700, questa guerra era motivata solo da interessi economici, senza alcun motivo ideale, a differenza, ad esempio, delle (terribili) guerre di religione del secolo precedente. Le ragioni di fondo erano diverse. Per secoli l’Inghilterra aveva desiderato le ricchezze delle Indie, e ora si sentiva abbastanza forte da puntare al bersaglio grosso: la conquista di Cuba, l’isola più grande e più ricca dei Caraibi. Gli inglesi cercarono anche di staccare i cubani dalla loro fedeltà alla Corona spagnola promettendo ufficialmente la totale salvaguardia delle loro proprietà e della religione cattolica, nonché la libertà di commerciare all’interno dell’Impero britannico e l’eliminazione di molte tasse.

Sui veri motivi della Gran Bretagna abbiamo una testimonianza eccezionale. Nel 1735 un ufficiale spagnolo a La Habana, Don Gaspar Courselle, fu avvicinato da agenti britannici che gli chiesero di mettersi al servizio della Gran Bretagna. Courselle finse di accettare, dicendo che era disposto a vendere segreti militari e ogni tipo di informazione su Cuba. Accolto a braccia aperte, ebbe l’opportunità di incontrare molti funzionari civili e militari e di viaggiare ampiamente nelle colonie nordamericane e nella stessa Gran Bretagna, fino a quando non ritenne prudente tornare in Spagna. Nel suo rapporto alla Corona spagnola scrive che gli inglesi “volevano conquistare l’isola di Cuba il più presto possibile, convinti che con … detta Isola avrebbero avuto la chiave delle Indie.” Il possesso di Cuba permetteva infatti di controllare anche le principali rotte commerciali dell’epoca tra l’Europa e l’America spagnola.

Inoltre, c’erano le colonie dell’America del Nord che erano già diventate una realtà economica e demografica significativa all’interno dell’Impero britannico. Mentre William Wood, un importante funzionario del Tesoro britannico, era apertamente a favore dell’occupazione di Cuba, perché poteva vedere i grandi vantaggi per l’economia delle colonie del Nord America, nelle colonie stesse, e specialmente nel Massachusetts, si era sviluppato un vasto movimento di opinione pubblica, determinato a prendere possesso di Cuba. Non solo i mercanti che volevano commerciare liberamente con la più grande isola dei Caraibi, ma anche i comuni coloni la volevano occupare, convinti di potervisi stabilire e creare fiorenti insediamenti agricoli, anche a causa di false informazioni sulla mitezza e salubrità del clima lì. Nel 1740 il governatore della Giamaica, Edward Trelawny, scrisse: “In breve, c’è uno spirito esuberante tra i coloni del Nord, che nella loro immaginazione hanno già inghiottito tutta Cuba.”

Il 28 luglio 1741 una grande flotta al comando dell’ammiraglio Edward Vernon, (proprio lui!) sbarca un forte contingente di truppe regolari britanniche e volontari nordamericani sull’allora disabitata baia di Guantánamo con l’obiettivo di catturare Santiago e la parte orientale di Cuba. La spedizione finì in un disastro assoluto, a causa della reazione efficace degli spagnoli e delle epidemie che flagellarono le truppe d’invasione, causando centinaia di vittime. I sopravvissuti si imbarcarono nuovamente il 27 novembre. C’erano molti volontari nordamericani tra le vittime e molte furono le lamentele e le rimostranze dei sopravvissuti contro il comportamento degli ufficiali britannici. Alcuni storici pensano che sul suolo cubano, durante questa spedizione, si siano visti i primi segni di quella anglofobia che 35 anni dopo avrebbe portato le tredici colonie alla guerra d’indipendenza.

Il fallimento della spedizione di Vernon mostrò la relativa ripresa del potere spagnolo sotto il regime borbonico, con la sua più moderna politica economica e navale. Poco dopo, una spedizione partita da La Havana attaccò con successo alcuni insediamenti inglesi in Georgia. La guerra terminò nel 1748 con una pace di compromesso, senza cambiamenti significativi nelle relazioni tra Spagna e Gran Bretagna.

 

Ora torniamo al rum cubano. Nella prima metà del 1700, la produzione di zucchero a Cuba sperimentò una serie di alti e bassi, e fu il tabacco dell’isola che attirò il maggior interesse della Corona. Tuttavia, in generale la produzione di zucchero aumentò notevolmente. Un anno dopo la fine della guerra, nel 1749, c’erano 62 piantagioni di canna da zucchero a La Habana. Nel 1761 ce n’erano 98, ed erano più grandi e molte fabbricavano anche il rum.

Le autorità locali comprendevano l’importanza del rum per l’economia delle piantagioni e la difficoltà di far rispettare la legge, e in varie occasioni cercarono di persuadere il governo spagnolo di Madrid a cambiare idea. Ecco cosa scrisse Francisco Antonio Caxigal de la Vega, governatore di Cuba tra il 1747 e il 1760, nel 1751 al potente ministro Marques de la Ensenada: “Per quanto riguarda l’aguardiente de caña ho fortemente incoraggiato i piantatori a continuare con i loro appelli, preparando documenti che possono spiegare la situazione …  Sarebbe più grave per quest’isola privarla di aguardiente che di pane; senza aguardiente de caña gli ospedali non sarebbero in grado di sopportare il costo del brandy di uva. Inoltre, ci sono giorni in cui il brandy dalle Isole Canarie semplicemente non si riesce a trovare, tranne quello che è rimasto invenduto perché rovinato. … E anche se si trova il brandy della Spagna, la gente non vuole berlo perché dicono che brucia.” Il Governatore concluse dicendo che la produzione di rum poteva essere permessa in cambio di una tassa annuale di 10.000 pesos, pagata dai piantatori dell’Avana. Ma nonostante tutto, una legge del 1758 ribadì il divieto, e sappiamo che 9 alambicchi furono distrutti nella sola La Havana con pesanti multe, e altri 12 furono confiscati.

Nel 1758 i piantatori dell’Avana lanciano l’ultima grande offensiva per la legalizzazione del rum. Offrono una donazione di 150.000 pesos alla Corona e l’introduzione di una tassa sui consumi in cambio della tanto desiderata fine del divieto. Ancora una volta, la richiesta non ha successo e il divieto è mantenuto.  Gli argomenti dei piantatori dell’Avana rimasero inascoltati fino al 1764, quando le vecchie concezioni monopolistiche del mercantilismo coloniale iniziarono a cedere.

 

Ma prima di raggiungere questo obiettivo, un altro evento decisivo della Grande Storia doveva aver luogo: la Guerra dei Sette Anni (1756 – 1763). Il grande conflitto tra Francia e Gran Bretagna per la supremazia in Europa e in tutto il mondo aprì anche la strada per l’umile legalizzazione del rum a Cuba. Tra le novità introdotte dopo la restaurazione del potere spagnolo a La Havana dopo l’occupazione inglese, fu imposta una tassa sulla produzione di rum, che finalmente guadagnò il tanto atteso riconoscimento ufficiale. Da allora, il rum è diventato una parte legittima dell’industria dello zucchero a Cuba (ma non ancora in tutto l’impero spagnolo).

Come vedremo nel prossimo articolo.

STORIA DEL RUM CUBANO 2. LA PRIMA GUERRA DEL RUM

Per chiarezza, è importante ricordare che aguardiente de Caña, è il nome con cui a Cuba chiamavano il distillato prodotto dalla canna da zucchero, il nostro Rum. È uno dei tanti nomi che il rum ha avuto (ed ha ancora) nella sua lunga e complessa storia.

La prima guerra del Rum a Cuba si combatte fra il costoso brandy importato dalla Spagna e soprattutto dalle Canarie, e l’economico rum locale. I mercanti delle Canarie, Isleños, sono i maggiori fornitori di brandy a Cuba e fanno pressione sulla Corona perché difenda i loro interessi, proibendo il rum.

Il 5 giugno 1739 una nuova legge ribadisce il divieto della produzione di rum a Cuba. La legge comanda anche che “entro 15 giorni i piantatori cubani devono consumare tutto l’aguardiente de Caña prodotto dai loro alambicchi, che dovevano essere fermati e distrutti, sotto pena di una multa di 200 Ducados.”

Questa volta i piantatori dell’Avana assumono una posizione chiara e pubblica, cercando di difendere i loro interessi collettivamente e legalmente. Il luglio 1739 rispondono con un “Memorialel de los Dueños de Ingenios de La Habana a Gūemes Horcasitas” (“Memoriale dei piantatori de La Avana a Gūemes Horcasitas” Juan Francisco de Güemes y Horcasitas (1681-1766) era un generale spagnolo e governatore dell’Avana).

Il Memoriale affronta il divieto di produrre e consumare rum: analizza i fatti, attacca gli isolani, protesta contro il proibizionismo, offre soluzioni: insomma, è un vero e proprio manifesto politico di ampio respiro. Non sono un esperto di storia cubana, ma credo che sia uno dei primi esempi dello sviluppo di una specifica coscienza di sé da parte dell’élite dell’Avana, come comunità distinta all’interno dell’impero spagnolo. Forse, uno dei primi passi nella complessa formazione dell’identità nazionale cubana.

Il testo è preceduto da una relazione scritta da Fray Martín Becquer, priore del Convento e Ospedale di San Juan de Dios a La Avana. In essa si sostiene che il divieto del rum causerebbe danni irreparabili ai molti poveri della città ed anche ai malati. È infatti un rimedio meraviglioso per molte malattie ed è economico, tant’è che, mentre adesso solo 200 pesos sono spesi per rifornire l’ospedale di rum, oltre 1.000 sarebbero necessari per acquistare il brandy dalle Isole o dalla Spagna. Senza contare che, scrive Bequer, il brandy spesso proprio non arriva in città.

Il Memoriale punta il dito contro i mercanti delle Isole e li accusa di essere i principali responsabili del nuovo divieto, a causa della loro costante pressione sulla Corona.  Eppure, il rum è stato prodotto a Cuba per molti anni e venduto apertamente senza particolari problemi, a volte da quegli stessi mercanti. Non è giusto privare ora i piantatori dell’Avana di un guadagno consolidato. Inoltre, il guadagno aggiuntivo derivante dal rum è assolutamente necessario, dati gli elevati costi e le basse entrate delle piantagioni di canna da zucchero. Non si può rovinare un intero settore economico, si afferma, per servire gli interessi di pochi mercanti e piantatori delle Isole, che, per di più, si comportano ingiustamente perché “pretendono di venderci i loro beni al prezzo più alto possibile e comprano i nostri al più basso” e “approfittano dei limitati, chiaramente definiti privilegi concessi loro dalla Corona, mentre i piantatori dell’Avana possono commerciare solo con gli spagnoli.”

Il Memoriale qui sparge il sale sulla ferita delle numerose illegalità commesse dai mercanti isleños. Per legge, dovrebbero commerciare solo con pochi porti dell’America spagnola, e solo con poche materie prime specifiche. Al contrario, è ben noto che essi si avvalgono dei loro privilegi per fare affari ampiamente con molti più porti e molte più merci di quanto non siano consentiti dalla legge. Inoltre, fungono illegalmente da intermediari di mercanti stranieri, facendo entrare di contrabbando molte merci straniere. “Non avevano mai lamentato la vendita di aguardiente de caña fino a quando questa attività è stata tollerata, e reagiscono solo ora che il Governatore la ha vietata.”

I piantatori dell’Avana citano anche una relazione scritta nel 1724 per il Consiglio Comunale dell’Avana da un importante funzionario, José Miguel Pérez de Alas. La relazione denunciava la mancanza di brandy delle Canarie, sostenendo che i mercanti delle Isole preferivano caricare sulle loro navi merci proibite invece del brandy legale. Poi, vendevano questi beni di contrabbando ad un prezzo elevato, facendo un enorme profitto. Inoltre, “gli stessi commercianti delle Isole Canarie di solito acquistano aguardiente de caña, lo mescolano con una piccola quantità di brandy che hanno portato, alterano il gusto ed il colore, e la botte che gli è costata 60 o 70 pesos, la rivendono come autentico brandy spagnolo a 200, 250 e 300 pesos.

Il Memoriale descrive anche il processo di produzione del rum. “Una brocca piena di melassa o succo che non si è solidificato viene messo in vasi ben puliti, dove viene aggiunta acqua comune; là è lasciato fino a che dalla ebollizione non sia purificato e sembri come se fosse vino, raggiunto questo punto è messo nell’alambicco . . . questo è ciò che chiamano aguardiente de caña, senza bisogno di aggiungere altri ingredienti. Se si desidera raffinare ed estrarre la quintessenza, l’aguardiente viene messo di nuovo nell’alambicco e viene distillato una seconda volta.”

Quindi, invece che in speciali serbatoi e di grandi dimensioni come nelle vicine isole britanniche dei, a Cuba la fermentazione ha luogo all’interno di vasi; un metodo simile a quello utilizzato negli stessi anni in Nuova Spagna, dove però i sacchi di cuoio sono utilizzati come contenitori. Questo significa che a Cuba e in Nuova Spagna producevano una quantità minore di rum? Forse sì, ma per esserne sicuri avremmo bisogno di ulteriori ricerche, e la clandestinità dell’intero processo rende difficile stimare oggi la quantità effettivamente prodotta.

Comunque, la produzione di rum era anche un modo efficace per utilizzare il succo di canna che non si cristallizzava in zucchero e che era spesso abbondante, sia per la rozzezza del processo di produzione, sia per il fatto che in molte piantagioni non disponevano di veri, esperti  Maestros de Azúcar: “è molto comune durante il raccolto perdere grandi quantità di zucchero dovuto a vari incidenti ed errori” e quel succo poteva essere usato solo per fare rum che era una parte importante dei loro guadagni.

I piantatori di La Avana sottolineano inoltre che, dopo aver vietato per lungo tempo la coltivazione dell’uva e la produzione di vino in Perù, la Corona aveva infine acconsentito in cambio di una tassa del 2% e che, più recentemente, la produzione di rum a Cartagena era stata autorizzata in cambio di una certa somma di denaro.

Poi il Memoriale propone un altro argomento, politico e militare. Sostiene che il rum è molto apprezzato dai coloni spagnoli in Florida, Apalaches e altre terre di confine, perché è l’unico mezzo per domare la “ferocia di quegli indiani”. In altre parole, dopo aver tentato di soggiogarli con la forza, a costo di grandi spese e sacrifici, i coloni si resero conto che gli indiani amavano il rum al punto che, per ottenerlo, erano disposti ad accettare la dominazione spagnola. Inoltre, secondo la testimonianza di Antonio Parladorio, direttore della compagnia costituita per soggiogare gli indiani Apalaches “abbiamo dato agli indiani varie cose che abbiamo ritenuto utili e necessarie per nutrirli, vestirli e farli vivere meglio, ma la maggior parte di quelle cose ci sono state restituite. Nelle loro lettere, i nostri agenti che risiedono vicino a loro ci hanno detto che l’unica cosa che gli indiani vogliono e chiedono vigorosamente è aguardiente de caña; a parte quello, tabacco e qualche coperta.” Ed hanno anche detto pubblicamente che “gli indiani della Florida detestano il brandy delle Isole e di Castilla.”Pertanto, il rum è uno strumento decisivo per la conquista di nuovi territori e per di  più, è davvero economico: “una bottiglia di rum costa 2 reales, mentre una bottiglia di brandy delle Isole costa 10, 12 reales e talvolta anche di più.” Ultimo ma non meno importante, se gli indiani non dovessero ottenere il rum dagli spagnoli, andrebbero a cercarlo dagli inglesi che ne hanno in abbondanza, a scapito della sicurezza dell’Impero.

Ma ci sono anche altri motivi per rimanere amici con gli indiani. Molte navi dirette in Spagna con carichi preziosi sono affondate nel canale di Bahama e in altri banchi di sabbia; queste enormi perdite sono state parzialmente evitate grazie alle immersioni, che hanno permesso di recuperare gran parte dei carichi. Ma la maggior parte dei subacquei, e quelli più abili, sono indiani di quella costa, che fanno la maggior parte del lavoro e sono in grado di trattenere il respiro sott’acqua molto più a lungo degli spagnoli. E questi indiani vogliono essere pagati con il rum, altrimenti se ne andranno.

Infine, molti medici sostengono l’uso del rum come medicina, soprattutto per gli schiavi “per guarire e dare maggiore vigore ai loro corpi, debilitati dalla troppa fatica, dalle molte faccende, dalla nudità e dalla fame, dalla mancanza di sonno, dal sole cocente e per prevenire e curare molte malattie.”

Nonostante le prove dei fatti, il Consiglio delle Indie ribadisce il divieto. Il Fiscal  (il funzionario della Corona che istruisce la pratica) è consapevole che “i precedenti divieti avevano ottenuto poco o nessun effetto pratico“, ma dichiara che è necessario sostenere il divieto e farlo rispettare. Solo, consiglia di tollerare piccole quantità specifiche per gli ospedali e di consentire ai Piantatori di distribuirle ai loro schiavi e inviarle in Florida, Apalaches e Panzacola. Ma il Consiglio non accetta nemmeno queste raccomandazioni e l’8 agosto 1740 stabilisce di mantenere il divieto assoluto di produrre e consumare rum a Cuba.

Così finì la prima guerra del rum a Cuba. Il rum continuò ad essere proibito dalla Corona e i coltivatori di La Havana continuarono a produrlo. Nel 1749 la legge divenne ancora più severa perché non solo fu ripetuto il divieto, con le solite sanzioni, ma fu persino decretato che gli alambicchi, ed anche gli zuccherifici dove era fatto il rum, dovevano essere demoliti. La liberalizzazione della produzione e del commercio di rum a Cuba sarebbe venuto solo più tardi, nel 1764.

Nel frattempo, mentre a Cuba Isleños e Habaneros litigano per il rum, la Grande Storia va avanti. Nel 1739 la Gran Bretagna dichiara guerra alla Spagna, che in seguito sarebbe stata chiamata “Guerra dell’orecchio di Jenkins”. Questa guerra è molto importante per noi appassionati di Rum perché è proprio allora che il vice ammiraglio britannico Edward Vernon ha “inventato” il Grog, la bevanda iconica della Royal Navy per più di 200 anni. Ma è molto importante anche per la Storia di Cuba (e degli Stati Uniti) per altri motivi, come vedremo nei prossimi articoli.

STORIA DEL RUM CUBANO 1. BEBIDAS PROHIBIDAS

Con questo articolo inizio una lunga serie dedicata a quello che è forse il più famoso dei rum, il Rum Cubano.

In Italia e credo in tutta Europa (con la parziale eccezione di Gran Bretagna e Francia) quando la gente pensa al rum, pensa prima di tutto a Cuba, e viceversa. Eppure, vi anticipo che Cuba emerge relativamente tardi sulla scena mondiale del rum. Nei primi secoli della sua storia, fra 1600 e 1700, la patria del rum è l’Impero Britannico ed infatti è la parola inglese rum con cui viene chiamato il nostro distillato in Italiano e (a volte con piccolo variazioni) in quasi tutte le lingue europee. Il Rum Cubano inizia la sua rapida ascesa molto più tardi, attorno al 1850, e solo nel Novecento, anche grazie al Proibizionismo, entra nella Hall of Fame del rum, con un successo mondiale e duraturo.

La storia del rum a Cuba è lunga e complessa, si intreccia spesso con la Grande Storia dell’isola e merita di essere raccontata. Ma prima di cominciare, due avvertimenti.

Primo. Semplificando molto una materia piuttosto complessa, nel periodo di cui ci occupiamo in questo e nei prossimi articoli, il rum a Cuba e in gran parte dell’America spagnola, è chiamato aguardiente decCaña cioè acqua ardente di canna. Solo più tardi, più o meno nella seconda metà del 1800, si è cominciato a chiamarlo ron.

Secondo. Per questo articolo, mi affido principalmente a un importante saggio di Manuel Hernández Gonzáles “La polémica sobre la Fabricación de aguardiente de Caña entre las elites Caribeñas y el Comercio Canario en el Siglo XVIII” (“La controversia sulla produzione di rum tra le élite caraibiche e il commercio delle Canarie nel XVIII secolo”). Quando non diversamente specificato, le citazioni sono da questo saggio; la traduzione è mia.

E adesso cominciamo.

Fin dall’inizio della colonizzazione spagnola, nel 1500, la Corona vieta la produzione e il consumo delle varie bevande alcoliche fermentate note alle popolazioni locali, con poche eccezioni, come il Pulque in Nuova Spagna (all’incirca, l’attuale Messico). La ragione ufficiale del divieto è proteggere la salute degli indios. La loro salute fisica, danneggiata da un consumo eccessivo, ma anche la loro salute morale e spirituale, poiché l’ubriachezza – si sostiene – spesso porta a commettere crimini e peccati. Ma c’ di più. Vietando l’uso tradizionale (rituale, religioso, magico, ecc.) delle bevande alcoliche (ripeto, fermentate, non distillate), la Corona e la Chiesa vogliono indebolire le culture e religioni indigene, che sono un ostacolo alla completa colonizzazione e cristianizzazione di quelle popolazioni.

Ci sono poi anche ragioni puramente economiche. La Spagna è un grande produttore ed esportatore di vino e di brandy e le autorità vogliono difendere questi interessi, concedendo una posizione di monopolio sul mercato americano al vino e al brandy della Madre Patria ed eliminando la concorrenza dei molto più economici prodotti locali.  La Corona vieta la coltivazione dell’uva e la produzione di vino e brandy in America (con qualche eccezione) e, proibisce la produzione del nuovo distillato fatto con la canna da zucchero, il rum.

Per secoli, si emanano molte leggi che proibiscono la produzione e il consumo delle cosiddette Bebidas Prohibidas, ma con scarsi effetti pratici. Di tanto in tanto nuove leggi ribadiscono il divieto, anche con pene molto dure, ma sempre con scarso successo. Una cosa è fare le leggi a Madrid, un’altra applicare davvero in America. Sia chiaro, nessuno si oppone apertamente alla volontà della Corona e spesso i funzionari reali appena arrivati tentano di far rispettare la legge. Ma poi, con il passare del tempo, il loro zelo è sopito dagli enormi spazi che devono ispezionare, dalla complessità della struttura sociale, dalla rete di abitudini ed interessi locali e, ultimo, ma non meno importante, dalla pura corruzione.

Le continue ripetizioni dei divieti di fabbricazione del rum ci dicone che il Governo trova difficile farli rispettare, ma anche che è irremovibile nel mantenere il divieto. Di fatto, il proibizionismo non impedisce la produzione clandestina di rum, ma sicuramente rallenta il pieno sviluppo di questa industria che non riusce a soddisfare la domanda. Sappiamo infatti che spesso i coloni spagnoli comprano il rum di contrabbando dalle colonie francesi dei Caraibi.

Vediamo, per esempio, quello che scrive Pére Labat all’inizio del 1700: “Lo spirito che facciamo nelle isole con la canna da zucchero, non è una delle bevande meno usate, lo chiamiamo Guildive o Taffia. I selvaggi, i negri, i coloni umili e gli artigiani non sono alla ricerca di un altro liquore e mancano di autocontrollo, è sufficiente per loro che lo Spirito sia forte, violento e costi poco; non importa se è duro e sgradevole. Se ne vende molto agli spagnoli sulla costa di Caracas, Cartagena, Honduras e delle grandi isole”

E’ un traffico illegale, di contrabbando, perché secondo le teorie mercantiliste dell’epoca, i coloni americani devono commerciare solo con la Madre Patria. Il contrabbando fiorisce in tutto il mondo atlantico, ma è particolarmente diffuso nell’Impero Spagnolo. L’America spagnola, secondo la legge, deve commerciare solo con la Spagna, anzi solo con il porto di Siviglia (poi Cadice) che ha il monopolio del commercio con Las Indias. Ma l’economia spagnola è relativamente arretrata e non  in grado di produrre la quantità e la qualità dei beni richiesti dai consumatori americani. I mercanti spagnoli di Siviglia si trovano spesso obbligati ad acquistare in Europa i manufatti che poi rivendono nelle Indie, ovviamente con un forte aumento dei costi.

Perciò le merci che raggiungono legalmente l’America sono sempre scarse e care,  spesso di qualità bassa e qualche volta non arrivano proprio. E lo stesso accade per le esportazioni americane: le navi spagnole su cui portare legalmente a Siviglia i prodotti delle Indie sono poche, e il costo del trasporto alto. In realtà, il contrabbando con gli olandesi, gli inglesi ecc. è indispensabile per la vita quotidiana e per lo sviluppo sia dell’economia che della società dell’America spagnola. Tutti lo sanno e molti ci guadagnano, inclusi molti funzionari della Corona.

La guerra di successione spagnola (1701-1714) porta un re borbonico sul trono spagnolo: Filippo V, nipote del re francese Luigi XIV, il Re Sole. Sotto il nuovo regime, l’influenza del centralismo e del dinamismo francese si diffonde in Spagna. In particolare, in Catalogna si sviluppa una notevole produzione di vino e di brandy. Pertanto, arrivano nuovi divieti di produrre rum in America, sempre con scarsa efficacia.

In questi primi decenni del 1700, entra in gioco anche un nuovo soggetto, i mercanti delle Isole Canarie. Da qualche tempo hanno ottenuto il privilegio di esportare legalmente i propri vini e distillati nelle Indie, anche se in quantità limitate e in cambio dovevano inviare un certo numero di coloni per popolare l’America. Ben presto, l’interesse dei cosiddetti Isleños (isolani) si concentrò su Cuba.

“Nei Caraibi il consumo di vino era piuttosto basso. I produttori delle Canarie si sono trovati costretti a sviluppare la produzione di brandy, il Parra, al fine di creare un mercato per le loro uve, poiché la domanda di vino era così limitata”. Invece il consumo di rum era forte ed anche la produzione locale, nonostante i divieti. A Cuba in particolare il rum ha molteplici usi: carburante per la cucina, detergente per la  pulizia e l’igiene personale, medicina preventiva e curative ed ovviamente bevanda di piacere.

I mercanti delle Canarie scoprono presto che vendere il loro brandy a Cuba non è facile. Il rum locale è abbondante, sempre disponibile e molto più economico, inoltre sembra che sia più popolare tra i consumatori.  Nel 1714 un nuovo decreto reale vieta la produzione e la vendita “della bevanda aguardiente de caña nei Regni delle Indie ” e dal momento che i divieti precedenti non avevano avuto l’effetto desiderato, questa volta non solo si vieta la produzione, ma si ordina anche la distruzione di tutti gli alambicchi e degli altri strumenti e materiali utilizzati per produrlo, sotto pena di una forte multa. Ma documenti contemporanei ci confermano che nelle piantagioni a La Habana, Villaclara y Sancti Spìritus è pratica comune fabbricare il rum ed anche questa volta gli effetti del divieto sono scarsi, tanto che viene ribadito nel 1720 e nel 1724.

Anni dopo, in un rapporto scritto intorno al 1737, “L’intelligente  Governatore perpetuo del Consiglio Comunale di La Laguna (Tenerife),  José Antonio de Anchieta y Alarcón individua le ragioni esatte per l’aumento della produzione e del consumo di rum a Cuba a scapito del brandy. Prima di tutto, il significativo aumento di disboscamento per piantare canna da zucchero vicino a La Habana, da cui provenivano carichi continui di rum prodotto nelle piantagioni. Quello che dice del prezzo è decisivo. Il rum è venduto a 28, 30 pesos al barile al massimo e una caraffa costa nelle taverne 3 Reales di argento, dieci volte meno di una caraffa di brandy. [Inoltre] Il numero di caldaie e alambicchi è aumentato in modo spettacolare, arrivano sulle navi britanniche dell’Asiento o dalla Nuova Spagna: la quantità prodotta è così grande che lo esportano a Campeche e in Florida. Con tale abbondanza ad un costo così basso, la continuità di un commercio di brandy è impossibile”

De Anchieta y Alarcón comprende con grande chiarezza che nel corso degli anni Cuba è cambiata. Non è più solo un importante scalo e un fornitore di carne e pelli per la flotta delle Indie. Nella primi decenni del 1700 l’agricoltura, in particolare il tabacco e lo zucchero, diventano centrali per l’economia e la società dell’isola. Lo sviluppo della coltivazione della canna da zucchero e della produzione di zucchero ha i suoi alti e bassi, ma nel complesso cresce, iniziando a segnare e plasmare il paesaggio agricolo ed il tessuto sociale. Sappiamo che nel 1749 ci sono 62 piantagioni intorno a La Havana e nel 1761 sono già 98, e di dimensioni più grandi. La maggior parte della produzione è concentrata attorno alla capitale che, grazie alle sue strutture ed al suo porto, permette di contenere i costi di trasporto.  E dove c’è lo zucchero, prima o poi c’è anche il rum. “La distillazione di aguardiente de caña è vecchia come le piantagioni stesse … È prodotto in tutte le piantagioni ben gestite in un reparto specifico, a volte separato dall’edificio principale dove viene prodotto lo zucchero, e che prende il nome proprio dall’apparato che contiene, l’alambicco”; così dice Jacobo de la Pezuela il secolo successivo nel suo grande   “Diccionarío … de la Isla de Cuba” pubblicato nel 1863.

I mercanti delle Canarie non si arrendono e si appellano ancora una volta alla Corona. Il 5 giugno 1739 una nuova legge ribadisce il divieto, questa volta decretando anche che “entro 15 giorni i piantatori cubani devono consumare tutto laguardiente de caña prodotto dai loro alambicchi, che devono essere fermati e distrutti, sotto pena di una multa di 200 Ducados.”

Questa volta, però, la reazione è differente. Divenuti ormai ricchi grazie al tabacco ed allo zucchero, i piantatori dell’Avana non rispondono al nuovo divieto con il silenzio e la finta obbedienza, continuando a fare tutto come prima. No, questa volta i piantatori si oppongono apertamente al divieto, cercando di difendere i loro interessi legalmente.

Infatti, nello stesso 1739, rispondono con un documento “Memorial de los Dueños de Ingenios de La Habana” (Memoriale dei Piantatori di La Avana). In esso esprimono la loro opposizione all’entrata in vigore della nuova legge e presentano le loro argomentazioni molto chiaramente. Dichiarano apertamente di aver prodotto il rum da lungo tempo, e che vogliono continuare a produrlo perché è vitale per la sopravvivenza delle loro imprese, dato l’alto costo di installazione e  di gestione di una piantagione e il basso prezzo che ottengono per lo zucchero.

Questo è tutto per ora, esamineremo questo straordinario, praticamente sconosciuto documento nel prossimo articolo.

Havana Club: un marchio di successo

Nel 1935 all’Avana nasce l’Havana Club Bar nella Piazza della Cattedrale. In quel bar i baristi usano per i loro cocktail un rum che porta lo stesso nome, Havana Club. Un marchio di proprietà della grande impresa ronera Arechabala che lo produce nella città di Càrdenas: il grande successo del rum Havana Club inizia allora. Dopo la rivoluzione castrista del 1959, Arechabala, come le altre imprese cubane, viene nazionalizzata e continua la produzione, anche se credo un po’ in sordina.

Nei decenni successivi Havana Club viene esportato nella allora Unione Sovietica e negli altri Paesi Socialisti dell’Europa dell’Est, allora stretti alleati del governo cubano. Nel 1993, dopo il crollo dell’Urss, il governo cubano stringe un accordo con la multinazionale francese Pernod Ricard per rilanciare la produzione di Havana Club e distribuirlo in tutto il mondo. La mossa è un successo. In quegli anni Pernod Ricard cresce molto ed oggi è la seconda impresa al mondo nel settore delle bevande alcoliche.
E Havana Club arriva, o a volte torna, sui mercati di tutto il mondo, con l’esclusione, come sappiamo, degli Usa.

E’ un marchio di grande successo in particolare in Europa, dove da anni assistiamo ad una crescita del consumo di rum, e dove oggi Havana Club è il rum dorato più venduto.
Forza del marchio, forza del prodotto?

Il marchio è perfetto per l’immaginario collettivo dell’europeo medio sul rum. Tutti più o meno sanno qualcosa di Cuba e dell’Havana, e molti europei ci sono stati. E normalmente sono tornati incantati. Lo hanno bevuto a Cuba, e ne hanno comprato qualche bottiglia da portarsi dietro. E tornati a casa vogliono riprovare quelle emozioni, almeno in parte, e continuano a bere Havana Club.

Su questo inesausto desiderio europeo di esotismo la Pernod Ricard lavora con intelligenza. Visitate i siti di Havana Club. Sono belli, un po’ anticati, informati ma non troppo, colti il giusto. Soprattutto sono molto cubani. Le strade, le piazze, la gente, la musica, i paesaggi… Cuba è cucinata in tutte le salse. Forse troppe, ma insomma, non stucca affatto, anzi. E’ chiaramente un messaggio pensato per un pubblico europeo culturalmente abbastanza maturo ed avvertito che cerca roba buona, autentica, tipica e, certo, esotica. Rispetto ai siti di Bacardi e al loro marketing siamo su un altro piano.

Claudio Pierini

Il marchio Havana Club fra Bacardi e Cuba

Qualcuno la ha già chiamata la guerra del rum. Dura in realtà da più di mezzo secolo, da quando nel 1960 il governo rivoluzionario cubano nazionalizzò le fabbriche Bacardi a Cuba. Anche se solo negli ultimi anni ha preso la sua forma attuale.

La Bacardi da una lato e la Pernod Ricard e il governo cubano dall’altro si sono contesi per anni la possibilità di usare il marchio Havana Club negli Stati Uniti. Ed ha vinto Bacardi. La Corte Suprema Usa, sì, proprio la Corte Suprema, ha posto fine alla disputa negando il 14 maggio alla compagnia Cubaexport la possibilità di difendere il suo diritto di iscrizione del marchio negli Stati Uniti.
Quindi negli Stati Uniti, e solo negli Stati Uniti, con il marchio Havana Club si continuerà a vendere un rum prodotto a Porto Rico dalla Bacardi. Mentre nel resto del mondo con il marchio Havana Club si vende un rum prodotto a Cuba e distribuito dalla multinazionale francese Pernod Ricard.
Prima della nazionalizzazione la Bacardi aveva già trasferito marchio e impianti all’estero quindi riuscì a sopravvivere fuori da Cuba ed oggi è una grande multinazionale con sede a Nassau, nelle Bermuda.
Ma Cuba continua ad essere centrale nell’immaginario collettivo dei consumatori di rum, e sotto il marchio, fortissimo, di Havana Club, in origine di proprietà della famiglia Arechabala e poi nazionalizzato, a Cuba si è continuato a produrre rum che a partire da un accordo del 1993, è distribuito dalla multinazionale francese Pernod-Ricard.

Nel 1996 la Bacardi mise in vendita negli Stati Uniti una marca Havana Club prodotta prima nelle Bahamas e poi a Porto Rico. La Pernod-Ricard rispose con una denuncia sostenendo che l’indicazione Havana Club confondeva i consumatori inducendoli a credere che il rum fosse prodotto, appunto, all’Havana. La Bacardi rispose che era solo un nome commerciale, non un’indicazione geografica, che certamente rinviava all’origine cubana della ditta, ma che sull’etichetta era chiaramente riportato il vero luogo di produzione. Così è iniziata la guerra legale a cui ha posto fine il 14 maggio scorso la sentenza della Corte Suprema. Come sempre quando si tratta di Cuba, ed in particolare di rum cubano, le considerazioni di ordine commerciale e legale si intrecciano con quelle di ordine politico. Alla base di tutto c’è ovviamente l’embargo che dura ormai da 50 anni degli Stati Uniti contro Cuba. E l’influenza che la Bacardi ha sulla politica degli Stati Uniti. Bacardí ha anche aiutato gli eredi in esilio della famiglia Arechabala a costituire in Liechtenstein la José Arechabala International, da cui ha acquistato i diritti di Havana Club nel 1997. Ed ha agito per far approvare una legge del 1998, detta “Sezione 211”, che nega il diritto di protezione intellettuale al marchio Havana Club cubano in territorio Usa, in quanto proveniente da espropriazione illegittima. Non è certo mia intenzione entrare nel merito di una vicenda cos’ complessa e che smuove simili interessi. Certo, la presenza di due rum diversi sotto lo stesso marchio Havana Club costituisce una situazione singolare e non facile da comprendere.

 

Marco Pierini

Don Josè Arechabala

Nel 1862, all’età di 15 anni, uno dei pionieri del rum cubano, José Arechabala y Aldama arriva all’Avana. Era nato nel 1847 nella provincia di Vizcaya, nel Paese Basco. Anche lui, come Facundo Bacardì e come tanti giovani spagnoli prima e dopo di lui cercava fortuna a Cuba. L’Isola era ormai quasi tutto quello che restava alla Spagna del suo antico impero, su cui, si diceva con orgoglio, “non tramonta mai il sole”.

Era energico e ambizioso e nel 1878, nella vivace città costiera di Càrdenas, fondò la sua azienda che, forse con un po’ di nostalgia, chiamò La Vizcaya. L’azienda si dedicava a distillare rum con un piccolo alambicco. Gli affari andarono bene, molto bene, tanto che nemmeno le grandi distruzioni causate da un terribile ciclone nel 1888 fermarono la crescita dell’impresa. Nel 1921 l’impresa, ormai una delle più grandi di Cuba, diventò una società per azioni con il nome di “José Arechabala, S.A.” di cui Don José divenne il primo presidente. Nonostante il Proibizionismo e la Grande Crisi del 1929, l’impresa crebbe e negli anni ’50 era diventata la più importante produttrice di rum di Cuba e una delle più importanti aziende dell’isola.

Lo stesso marchio Havana Club fu introdotto nel 1935 dalla famiglia Arechabala. L’azienda fu confiscata dal governo dopo il 1959 e la famiglia lasciò l’isola. Non conosco i dettagli giuridici, ma la famiglia Arechabala non riuscì a trasferire all’estero né il marchio, né la produzione (come fatto ad esempio da Bacardì). Oggi il vecchio marchio Arechabala è diventato Arecha e appartiene allo stato cubano. In un primo periodo la produzione era rivolta solo al mercato interno, poi ai paesi socialisti alleati di Cuba, ma da tempo Arecha viene esportato ovunque.

Claudio Pierini

Don Facundo Bacardì y Maso

Fra i pionieri del rum cubano spicca il nome di un mercante di vini catalano che nel 1830 emigrò a Santiago, nell’estremo oriente di Cuba, il suo nome era Don Facundo Bacardì y Maso.

Bacardì tentò qualcosa di completamente nuovo, filtrare il rum il attraverso carbone vegetale per rimuovere congeneri, particelle ed altre impurità e poi invecchiarlo in botti di rovere. In poche generazioni, Bacardì diventò una delle più grandi imprese dell’isola. Dopo la Rivoluzione castrista del 1959 l’impresa fu espropriata e la famiglia lasciò Cuba. Il marchio era stato registrato alle Bahamas prima della rivoluzione e la famiglia aveva all’estero risorse importanti. Di fatto la produzione riprese presto a Porto Rico. Oggi Bacardi, ormai senza accento, è il primo produttore di rum al mondo. Una grande multinazionale con fabbriche in molti paesi e la sede centrale alle Bermuda.

Claudio Pierini