La Guerra dei Sette Anni (1756-1763) è ormai quasi dimenticata, ma è un evento di fondamentale importanza ed ha plasmato gran parte del nostro mondo moderno. Iniziò nel 1754, come un conflitto coloniale tra Gran Bretagna e Francia, quando gli inglesi cercarono di espandersi nel territorio rivendicato dai francesi in Nord America. Poi coinvolse le principali potenze europee, molte nazioni indiane e anche varie potenze asiatiche.
La Spagna si unì alla guerra nel 1762 schierandosi con la Francia. La decisione fu presa dopo molte esitazioni, ma sembra dale fonti, con la piena consapevolezza di ciò che era in gioco. Infatti, nel preambolo del Trattato di alleanza con la Francia è scritto: “Tutta l’Europa deve essere consapevole dei rischi a cui è esposto l’equilibrio marittimo, considerando i progetti ambiziosi della Corte Britannica e il dispotismo che cerca di imporre su tutti i mari. La nazione inglese ha dimostrato, e dimostra chiaramente nei suoi procedimenti, soprattutto negli ultimi dieci anni, che vuole farsi padrona assoluta della navigazione, e intende lasciare a tutti gli altri solo un commercio passivo e dipendente.”
La guerra coinvolse tutti i continenti, fu forse la prima vera guerra mondiale, e finì con la vittoria finale della Gran Bretagna, dovuta principalmente alla sua superiorità navale. La Potenza raggiunta dalla Marina britannica le permise nel 1762 di vincere il premio più grande di tutti, sognato da pirati e corsari inglesi fin dai tempi di Francis Drake: catturare L’Avana, impadronirsi della Chiave delle Indie.
Il 7 giugno 1762 60 navi da guerra, 150 navi da carico e 27.000 tra soldati e marinai attaccarono L’Avana. Due mesi dopo, il 12 agosto, la città si arrese con una serie di condizioni. In Gran Bretagna e in Nord America l’entusiasmo fu enorme, ma la città fu restituita alla Spagna poco più di un anno dopo. Infatti, nel 1763 con il Trattato di Pace, la Gran Bretagna ottenne il riconoscimento della sua conquista dell’Impero francese in Nord America, ma restituì a Francia e Spagna la Louisiana, la Florida, le Isole dello Zucchero francesi e L’Avana: gli Sugar Barons britannici dei Caribi non volevano concorrenti pericolosi all’interno dell’Impero.
L’occupazione britannica della città, anche se durò solo 10 mesi, lasciò un segno indelebile. Il monopolio spagnolo fu sospeso e il traffico portuale conobbe una crescita vertiginosa. Londra non diede a L’Avana completa libertà di commercio, ma la libertà di commerciare all’interno del suo impero, che era molto più ricco di quello spagnolo. Forse questa esplosione del commercio fu dovuta, almeno in parte, al semplice venire alla luce del contrabbando, ma in ogni modo la scossa fu forte e con conseguenze di vasta portata.
Questo breve periodo di boom economico e di quasi libertà commerciale ha generato, con il passare degli anni, una sorta di nostalgia fra le élite liberali ed indipendentiste cubane. Più tardi, ha fortemente influenzato l’opinione degli storici fino al punto che molti considerano il 1762 come l’inizio reale dello sviluppo economico cubano, anzi a volte sembra che solo da questo anno la storia di Cuba meriti di essere studiata. Ad esempio, secondo Francisco de Arango y Parreño, il maître à penser dei piantatori de L’Avana nella generazione successiva: “È stato un periodo di vera risurrezione per L’Avana … Con i loro negri e il loro libero scambio, gli inglesi hanno fatto più di quanto abbiamo fatto noi nei 60 anni precedenti”. In realtà, nel 1762 Cuba era già una società complessa e relativamente sviluppata e i semi del progresso che in pochi decenni la avrebbe trasformata nel primo produttore di zucchero al mondo erano già stati seminati.
In ogni caso, uno degli effetti più duraturi della breve occupazione Britannica fu l’allargamento delle divisioni tra Peninsulares (cioè, spagnoli nati in Spagna) e Criollos (cioè, persone di origine europea, ma nate a Cuba). Tra le condizioni stabilite per la resa, gli inglesi avevano accettato di rispettare i costumi, la religione e la proprietà privata degli abitanti e più o meno rispettarono I patti per quanto riguarda la proprietà degli abitanti della città, cioè, fondamentalmente, i ricchi Criollos. Invece, sequestrarono i beni della Corona e dei proprietari terrieri Peninsulares che avevano interessi economici a L’Avana, ma vivevano in Spagna. Questi ultimi erano numerosi e spesso erano partner commerciali dei mercanti locali, dai quali si sentirono traditi. Insomma, la borghesia creola difese bene i propri interessi, frequentando liberamente ed in molti casi anche collaborando con gli occupanti, mentre si preoccupò ben poco degli interessi dei peninsulares e della Corona. Tanto che un funzionario spagnolo scrisse dopo la fine dell’occupazione: “Una bandiera o l’altra era secondaria, perché il cubano si sentiva convinto di avere già la sua patria.”
Nel 1763 Cuba aveva circa 165.000 abitanti, di cui un terzo a L’Avana e molti altri concentrati nelle altre città. Era quIndi una società prevalentemente urbana, una caratteristica che, mi sembra, ha mantenuto fino ad oggi. Nonostante l’immigrazione e le nascite, il numero di abitanti restava basso a causa dell’alto alto tasso di mortalità. I due flagelli principali erano il vaiolo e la febbre gialla, conosciuta anche come vomito nero. Il primo era di origine europea, il secondo africana. I criollos erano relativamente immunizzati, ma i peninsulares (soldati, marinai, funzionari ecc.) morivano a migliaia. Le esportazioni erano principalmente pelli, tabacco e zucchero e, come sappiamo, un po’ di rum di contrabbando.
Alejandro O’ Reilly, nato a Dublino intorno al 1725, era un ufficiale al servizio del re di Spagna Carlo III. Inviato a L’Avana, fu incaricato di visitare l’intera isola per riorganizzare e rafforzare la milizia locale. Ma il Governatore gli ordinò anche di riferirgli sulla situazione generale dell’isola, i problemi e le possibili soluzioni. Era una persona colta, immersa nelle idee dell’illuminismo allora egemone nella cultura europea. Una meravigliosa cultura generale, lontana dall’iperspecializzazione che, a mio modesto parere, è una delle debolezze del nostro presente. O’ Reilly scrisse un breve rapporto sulla sua visita, in cui, in modo perspicace e conciso, descrive la situazione dell’isola, le sue principali difficoltà e le possibili soluzioni. Il problema fondamentale dell’economia cubana, scrive, è il monopolio commerciale di Cadice e la conseguente, massiccia diffusione del contrabbando, indiscutibilmente impossibile da contrastare. Gli abitanti non possono ricevere dalla Spagna i beni di cui hanno bisogno, prima di tutto i vestiti, e allo stesso tempo non possono esportare i frutti della loro terra e del loro lavoro. La situazione è particolarmente grave lontano da L’Avana: “In un periodo di dieci anni, solo ciò che era sufficiente per il consumo di sei mesi ha raggiunto Santiago, Bayamo, Porto del Principe (attuale Camagüey) e gli altri villaggi dell’interno.” Pertanto, regnano il contrabbando, l’illegalità e la criminalità, causando gravi danni sia ai privati cittadini che allo Stato. La soluzione offerta da O’ Reilly è chiara: aprire Cuba al libero scambio con tutti i porti dell’impero spagnolo e, in parte, anche con i porti stranieri. “I vantaggi per il Re, per il commercio spagnolo e lo sviluppo dell’isola derivanti dalla liberalizzazione del commercio sono innumerevoli. Sono stati vissuti in prima persona durante la dominazione inglese a L’Avana. I dazi doganali aumentarono enormemente e, in un solo anno, circa 1.000 navi, che trasportavano ogni sorta di merci, entrarono nel porto.”
Dal 1763 in poi, l’apertura di Cuba al mondo è un fatto irreversibile, seppur lento e graduale. Il 26 marzo 1764, un decreto reale concesse la tanto agognata liberalizzazione dell’ aguardiente de caña, in cambio del pagamento di un dazio sulla produzione e di un altro sugli alambicchi. Il dazio consisteva di 2 pesos per ogni barile di rum prodotto, oppure di una somma che i piantatori dovevano concordare con i funzionari del Tesoro Reale, firmando una relazione giurata. L’anno successivo fu sostituito da un dazio del 2% al barile.
Ma com’era questo rum? Ovviamente non lo sapremo mai veramente, ma possiamo fare qualche congettura. Per quanto ne so sul modo di produrlo, e non solo a Cuba, credo proprio che oggi nessun bevitore lo apprezzerebbe oggi. Eppure, considerando il suo uso estensivo come medicinale, non poteva più essere quel “liquore ardente, infernale e terribile” descritto da un visitatore a Barbados nel secolo precedente.
Comunque, la legalizzazione del 1764 è un privilegio speciale concesso a Cuba, mentre in Nuova Spagna (all’incirca l’attuale Messico) rimane il divieto. Per questo nel 1788 un alto funzionario dell’Erario, Silvestre Diaz de la Vega, scrive un “Discurso sobre la decadencia de la Agricoltura en el Reyno de Nueva España” (Saggio sul declino dell’agricoltura nel Regno della Nuova Spagna) in cui sostiene la necessità di legalizzare la produzione di rum anche in Nuova Spagna con tutta una serie di concrete e ragionevoli motivazioni sui danni del proibizionismo vigente. Ma fa anche di più: chiede di definire per legge come deve essere fabbricato il rum, dando vita ad un precoce embrione di regole di qualità: “L’ Aguardiente de Caña deve essere prodotto con buona melassa e acqua di buona qualità, senza mescolarla con altre cose, nemmeno con il miele; dovrà essere fatto con la massima pulizia, e la prova di qualità dovrà essere tra quelle conosciute come la Prova dell’ Olio, quella di Olanda e quella delle Bolle.”
Credo che la Prova dell’Olio e quella delle Bolle siano più o meno le stesse che ho incontrato studiando il rum nelle contemporanee colonie britanniche del Nord America. La prima consiste nell’aggiunta di una piccola quantità di olio di oliva al rum: se l’olio rimane in superficie significa che il rum ha una percentuale di alcol troppo bassa, qundi non è buono; se invece l’olio affonda vuol dire che c’è abbastanza alcol e quindi va bene. La seconda nello scuotere un piccolo tubo di vetro in cui è contenuto un po’ di rum ed esaminare la scomparsa delle bolle che si sono formate. Se sono piccole e scompaiono lentamente, il rum è troppo poco alcolico, non supera la prova. Se invece sono grandi e scompaiono rapidamente, vuol dire che c’è abbastanza alcol ed il rum va bene. Sulla Prova di Olanda non so niente.
Permettetemi infine di fare una breve digressione che non riguarda il rum, ma la Grande Storia. La vittoria della Gran Bretagna sulla Francia nella Guerra dei Sette Anni fu soprattutto il risultato delle vittorie della Marina britannica sulla Marina francese. Più tardi, contro Napoleone, la supremazia navale conservò l’esistenza stessa della Gran Bretagna impedendo la sua invasione da parte dell’imbattibile Esercito francese. Mi chiedo quindi quali siano le ragioni di questa lunga supremazia britannica nella guerra navale. Le navi francesi non erano tecnicamente inferiori a quelle britanniche, e i marinai francesi, mercanti, corsari e pirati non erano secondi a nessuno. Perché allora la Marina francese ha subito così tante sconfitte? Forse la risposta sta in un rapporto diverso tra la Marina e la società. In Francia i ranghi più alti sia dell’Esercito che della flotta erano riservati alla nobiltà, una casta guerriera, ma poco incline al mare, che ha prodotto grandi comandanti dell’Esercito, ma non della Marina. In Gran Bretagna, invece, la Marina era più meritocratica, e dava opportunità di carriera a giovani di talento provenienti da (relativamente) basso background sociale. Così i suoi capitani e ammiragli tendevano ad essere di gran lunga più capaci. Non ho studiato la questione, ma ho trovato almeno una fonte interessante: Jane Austen. “Persuasion” fu pubblicata nel 1818. Nel romanzo, Sir Walter è un nobile, presuntuoso, vanitoso, gonfio di orgoglio per della sua classe sociale, ma ozioso, impoverito e pieno di debiti. E non ama la Marina perchè, dice, è un “mezzo per portare le persone di nascita oscura in indebita distinzione, e innalzare alcuni uomini a onori che i loro padri e nonni non hanno mai sognato”