In questo terzo articolo, dedicherò ampio spazio alla Grande Storia, e non solo al rum. Mi scuso con i lettori, ma vi assicuro che, come spesso accade, le sorti del nostro distillato preferito sono strettamente intrecciate con la Storia in generale; senza sapere qualcosa su quest’ultima, è impossibile capire cosa succede al rum.
Spesso, nella nostra vita quotidiana e anche nelle nostre riflessioni, tendiamo a dare per scontato il nostro presente, come se il mondo intorno a noi fosse il risultato di un naturale, inevitabile processo storico. Per esempio, e qui veniamo al nostro argomento, il fatto che le Americhe, l’Australia ed altre parti remote del mondo oggi parlano lingue nate nell’Europa Occidentale del Medioevo ci sembra normale, mentre è invece il frutto di un complesso processo storico.
Il nostro mondo moderno è stato plasmato in larga misura dalla corsa alla conquista degli oceani, che l’Europa occidentale ha iniziato nel 1400 (con qualche tentativo anche prima). Una corsa che ha dato origine alla prima, vera globalizzazione e poi ha fatto di alcuni piccoli paesi europei le potenze dominanti del pianeta. Inoltre, per lo più tendiamo a dimenticare che in quella gara l’Inghilterra è partita per ultima. L’Inghilterra (e la Gran Bretagna, dopo l’Atto di Unione del 1707) è riuscita to rule the waves (cioè a governare le onde, come canta il famoso inno) solo dopo il Portogallo, la Spagna, i Paesi Bassi ed anche la Francia. Solo alla fine del 1500, circa un secolo dopo l’arrivo dei portoghesi in India e degli spagnoli in America, gli inglesi iniziarono a intervenire in America. In primo luogo, pirati e corsari inglesi come Francis Drake attaccarono e saccheggiarono i tesori dell’America spagnola, ma senza cercare di stabilirvisi. Poi, nel 1620, gruppi di coloni inglesi si stabilirono in alcune piccole e marginali isole dei Caraibi, come Barbados e Saint Kitts. Più tardi, Oliver Cromwell concepì il suo ambizioso “Western Design” e nel 1654 inviò una flotta a conquistare Hispaniola (oggi Santo Domingo e Haiti). L’invasione di Hispaniola fu mal preparata e peggio effettuata e dopo una schiacciante sconfitta, le truppe inglesi si ritirarono in disordine e dovettero reimbarcarsi rapidamente, accontentandosi di occupare la Giamaica, povera isola spagnola, scarsamente popolata e praticamente indifesa. Nella seconda metà del 1600, le incursioni di corsari e pirati inglesi nei Caraibi continuarono, basti ricordare il nome di Henry Morgan, ma senza nuove, importanti conquiste territoriali. Nei primi decenni del 1700, le principali attività della Gran Bretagna nei Caraibi furono la vendita legale di schiavi all’America Spagnola e il contrabbando che era diffuso in tutto l’Atlantico e particolarmente nell’America Spagnola, come abbiamo visto nel primo articolo.
Nei primi decenni del 1700, la Spagna reagisce efficacemente armando un numero considerevole delle cosiddette guardacostas. Si tratta di navi veloci, equipaggiate con il contributo di armatori e corsari che, salpando principalmente da La Havana e Santiago, attaccano e sequestrano le navi contrabbandiere, condividendo poi il bottino con le autorità. Presto la linea tra il sequestro legale di navi contrabbandiere straniere e il semplice saccheggio di navi che commerciavano legalmente fu attraversata, come era pratica comune all’epoca, e le guardacostas divennero un vero flagello per la navigazione britannica nei Caraibi.
Nell’aprile del 1731 il brigantino britannico Rebecca stava navigando, probabilmente non lontano da La Avana, quando una guardacostas lo abbordò, alla ricerca di merci di contrabbando. Ciò che è realmente accadde a bordo non è chiaro ed al momento sembrò un evento insignificante. Ma sette anni dopo, nel 1738, il capitano del Rebecca, Robert Jenkins, mostrò ad un comitato della Camera dei Comuni il suo orecchio sinistro, tagliato dagli spagnoli che – disse – saccheggiarono anche la nave e insultarono il re britannico. L’opinione pubblica era già arrabbiata con la Spagna per altri “oltraggi” subiti dalle navi britanniche e la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Spagna nell’ottobre 1739, in seguito chiamata “Guerra dell’orecchio di Jenkins”.
Ovviamente, l’orecchio di Jenkins era solo un pretesto. Come molte altre guerre del 1700, questa guerra era motivata solo da interessi economici, senza alcun motivo ideale, a differenza, ad esempio, delle (terribili) guerre di religione del secolo precedente. Le ragioni di fondo erano diverse. Per secoli l’Inghilterra aveva desiderato le ricchezze delle Indie, e ora si sentiva abbastanza forte da puntare al bersaglio grosso: la conquista di Cuba, l’isola più grande e più ricca dei Caraibi. Gli inglesi cercarono anche di staccare i cubani dalla loro fedeltà alla Corona spagnola promettendo ufficialmente la totale salvaguardia delle loro proprietà e della religione cattolica, nonché la libertà di commerciare all’interno dell’Impero britannico e l’eliminazione di molte tasse.
Sui veri motivi della Gran Bretagna abbiamo una testimonianza eccezionale. Nel 1735 un ufficiale spagnolo a La Habana, Don Gaspar Courselle, fu avvicinato da agenti britannici che gli chiesero di mettersi al servizio della Gran Bretagna. Courselle finse di accettare, dicendo che era disposto a vendere segreti militari e ogni tipo di informazione su Cuba. Accolto a braccia aperte, ebbe l’opportunità di incontrare molti funzionari civili e militari e di viaggiare ampiamente nelle colonie nordamericane e nella stessa Gran Bretagna, fino a quando non ritenne prudente tornare in Spagna. Nel suo rapporto alla Corona spagnola scrive che gli inglesi “volevano conquistare l’isola di Cuba il più presto possibile, convinti che con … detta Isola avrebbero avuto la chiave delle Indie.” Il possesso di Cuba permetteva infatti di controllare anche le principali rotte commerciali dell’epoca tra l’Europa e l’America spagnola.
Inoltre, c’erano le colonie dell’America del Nord che erano già diventate una realtà economica e demografica significativa all’interno dell’Impero britannico. Mentre William Wood, un importante funzionario del Tesoro britannico, era apertamente a favore dell’occupazione di Cuba, perché poteva vedere i grandi vantaggi per l’economia delle colonie del Nord America, nelle colonie stesse, e specialmente nel Massachusetts, si era sviluppato un vasto movimento di opinione pubblica, determinato a prendere possesso di Cuba. Non solo i mercanti che volevano commerciare liberamente con la più grande isola dei Caraibi, ma anche i comuni coloni la volevano occupare, convinti di potervisi stabilire e creare fiorenti insediamenti agricoli, anche a causa di false informazioni sulla mitezza e salubrità del clima lì. Nel 1740 il governatore della Giamaica, Edward Trelawny, scrisse: “In breve, c’è uno spirito esuberante tra i coloni del Nord, che nella loro immaginazione hanno già inghiottito tutta Cuba.”
Il 28 luglio 1741 una grande flotta al comando dell’ammiraglio Edward Vernon, (proprio lui!) sbarca un forte contingente di truppe regolari britanniche e volontari nordamericani sull’allora disabitata baia di Guantánamo con l’obiettivo di catturare Santiago e la parte orientale di Cuba. La spedizione finì in un disastro assoluto, a causa della reazione efficace degli spagnoli e delle epidemie che flagellarono le truppe d’invasione, causando centinaia di vittime. I sopravvissuti si imbarcarono nuovamente il 27 novembre. C’erano molti volontari nordamericani tra le vittime e molte furono le lamentele e le rimostranze dei sopravvissuti contro il comportamento degli ufficiali britannici. Alcuni storici pensano che sul suolo cubano, durante questa spedizione, si siano visti i primi segni di quella anglofobia che 35 anni dopo avrebbe portato le tredici colonie alla guerra d’indipendenza.
Il fallimento della spedizione di Vernon mostrò la relativa ripresa del potere spagnolo sotto il regime borbonico, con la sua più moderna politica economica e navale. Poco dopo, una spedizione partita da La Havana attaccò con successo alcuni insediamenti inglesi in Georgia. La guerra terminò nel 1748 con una pace di compromesso, senza cambiamenti significativi nelle relazioni tra Spagna e Gran Bretagna.
Ora torniamo al rum cubano. Nella prima metà del 1700, la produzione di zucchero a Cuba sperimentò una serie di alti e bassi, e fu il tabacco dell’isola che attirò il maggior interesse della Corona. Tuttavia, in generale la produzione di zucchero aumentò notevolmente. Un anno dopo la fine della guerra, nel 1749, c’erano 62 piantagioni di canna da zucchero a La Habana. Nel 1761 ce n’erano 98, ed erano più grandi e molte fabbricavano anche il rum.
Le autorità locali comprendevano l’importanza del rum per l’economia delle piantagioni e la difficoltà di far rispettare la legge, e in varie occasioni cercarono di persuadere il governo spagnolo di Madrid a cambiare idea. Ecco cosa scrisse Francisco Antonio Caxigal de la Vega, governatore di Cuba tra il 1747 e il 1760, nel 1751 al potente ministro Marques de la Ensenada: “Per quanto riguarda l’aguardiente de caña ho fortemente incoraggiato i piantatori a continuare con i loro appelli, preparando documenti che possono spiegare la situazione … Sarebbe più grave per quest’isola privarla di aguardiente che di pane; senza aguardiente de caña gli ospedali non sarebbero in grado di sopportare il costo del brandy di uva. Inoltre, ci sono giorni in cui il brandy dalle Isole Canarie semplicemente non si riesce a trovare, tranne quello che è rimasto invenduto perché rovinato. … E anche se si trova il brandy della Spagna, la gente non vuole berlo perché dicono che brucia.” Il Governatore concluse dicendo che la produzione di rum poteva essere permessa in cambio di una tassa annuale di 10.000 pesos, pagata dai piantatori dell’Avana. Ma nonostante tutto, una legge del 1758 ribadì il divieto, e sappiamo che 9 alambicchi furono distrutti nella sola La Havana con pesanti multe, e altri 12 furono confiscati.
Nel 1758 i piantatori dell’Avana lanciano l’ultima grande offensiva per la legalizzazione del rum. Offrono una donazione di 150.000 pesos alla Corona e l’introduzione di una tassa sui consumi in cambio della tanto desiderata fine del divieto. Ancora una volta, la richiesta non ha successo e il divieto è mantenuto. Gli argomenti dei piantatori dell’Avana rimasero inascoltati fino al 1764, quando le vecchie concezioni monopolistiche del mercantilismo coloniale iniziarono a cedere.
Ma prima di raggiungere questo obiettivo, un altro evento decisivo della Grande Storia doveva aver luogo: la Guerra dei Sette Anni (1756 – 1763). Il grande conflitto tra Francia e Gran Bretagna per la supremazia in Europa e in tutto il mondo aprì anche la strada per l’umile legalizzazione del rum a Cuba. Tra le novità introdotte dopo la restaurazione del potere spagnolo a La Havana dopo l’occupazione inglese, fu imposta una tassa sulla produzione di rum, che finalmente guadagnò il tanto atteso riconoscimento ufficiale. Da allora, il rum è diventato una parte legittima dell’industria dello zucchero a Cuba (ma non ancora in tutto l’impero spagnolo).
Come vedremo nel prossimo articolo.